Nell’immagine: Achille Castiglioni in studio con la lampada Arco; la lampada Parentesi; la lampada Giovi.
A colloquio con la figlia Giovanna. L’insegnamento più grande è quello di approcciarsi alle cose con tanta curiosità.
Immaginatevi di essere in una bolla dove tutto va al rallentatore e di guardare il mondo fuori che prosegue con la frenesia quotidiana. Immaginatevi uno spazio dove le pareti raccontano storie incredibili e i pavimenti profumano di rovere… Un ambiente dove ti senti improvvisamente molto rilassato.
Milano, Piazza Castello, civico 27. Entro con entusiasmo e varcando la soglia mi sento, stranamente, profondamente a mio agio. Mi accoglie sorridente, con il suo bassotto, Giovanna Castiglioni, e ci accomodiamo nello studio di uno dei più grandi Architetti e Designer di sempre: Achille Castiglioni, suo padre. Nato nel 1918, laureatosi al Politecnico nel 1944, Achille Castiglioni, tra il 1955 e il 1979, ha vinto ben 7 Compassi d’oro e numerosi premi in Triennale.
È stato uno dei fondatori dell’Associazione per il Disegno Industriale, insegnante di alcuni fra i più importanti Architetti e Designer attuali e padre di alcune delle lampade ancora oggi più desiderate e vendute al mondo. Iniziamo a parlare come fossimo amiche da sempre: Giovanna ha negli occhi una vitalità coinvolgente.
• Come è nata la Fondazione? Un progetto importante da portare avanti…
“Sì, diciamo un progettone, più grande di noi! (ride, ndr). L’idea iniziale l’ha avuta mia madre. Dopo la morte di papà ci ha detto: lo studio aprirà al pubblico! Sentirlo dire da lei è stato strano perché dei due era certamente lui quello esposto pubblicamente. Così ad un certo punto, malgrado amasse poco mettere in piazza la sua vita, mamma ha pensato fosse giusto restituire al mondo un pezzo di Castiglioni. Ha fatto sforzi notevoli per tenere aperto questo posto, ma ci credeva poco. Poi, 12 anni fa, ha affidato il compito a me, cioè alla più casinara della famiglia, ed io ho messo in piazza tutto (sorride, ndr). Sono la figlia che racconta il papà e con la scusa di raccontarlo tiene vivo il ricordo. In sostanza è una bieca scusa per sentirlo vicino: avevamo rapporto meraviglioso. Poi sono la più piccola di tre fratelli e quindi quella che se l’è goduto maggiormente quando era all’apice del successo. Lo seguivo spesso anche durante i suoi viaggi e le conferenze per il mondo”.
• Ti rendevi conto di avere un padre famoso?
“Me ne sono resa conto dopo la sua morte perché prima, sì, vedevo che stringeva molte mani, ma pensavo semplicemente che fosse simpatico a tanti. Era un padre molto presente: veniva in studio ma tornava a casa a pranzo e durante le feste ci si trovava. Non avevo la percezione di avere un mito come padre e in realtà mi è sempre interessato poco…”.
• Qual era il suo modo di vedere le cose?
“Era un maestro eccezionale e aveva la capacità di far sentire tutti partecipi e utili. A 10 anni mi ha portata in America, ed io ero la sua assistente: mi faceva montare le lampade, mi sentivo importante, ero parte di qualcosa. In viaggio portava con sé una valigia che noi consideravamo di giocattoli perché c’erano oggetti che non avevano, o non avevano ancora, uno scopo preciso. Lui insegnava a guardare tutto in prospettiva”.
• Hai mai detto a tuo padre che avevi superato il test per entrare ad Architettura?
“Come fai a saperlo?”
• Ho letto questa cosa…
“Sì, gliel’ho detto ma solo quando ero in età adulta. Non ho fatto Architettura perché, malgrado la passione, non volevo sentirmi avvantaggiata. Non volevo passare gli esami solo perché ero la figlia di Castiglioni”.
• Ho la sensazione che di Architettura ne sappia molto più tu rispetto a chi la studia…
“Sì, perché l’ho letta come un romanzo. In questo senso mi ha aiutata molto questo posto. Qui passano persone di vario tipo e hai un confronto continuo: questo posto è vivo come lo era quando c’era papà. Sempre in movimento!”
• Come si rapportava tuo padre con i prodotti che disegnava?
“Era molto diretto, diceva sempre: Non metterla giù tanto dura e racconta le cose anche con 4 parole. Considerava gli oggetti per quello che sono. La Toio è un trasformatore elettrico, brutto per certi versi, ma fa la sua figura e ha quella struttura in ferro che completa. Non devi star tanto a descriverla con questioni concettuali, filosofiche, metafisiche. Quello è! Mio padre aveva un rapporto meraviglioso con la luce: gli piaceva trasformare la luce naturale in artificiale, ogni volta con modalità diverse. S’innamorava più delle lampadine che delle lampade e in effetti se si osservano le lampade di Castiglioni sono tutte diverse perché ogni volta cercava di ricreare spot di luce differenti. La lampadina caratterizza le lampade. Ogni lampada ha una funzione, insomma, e deve essere acquistata per un motivo. Per evitare che si faccia come me da piccola che nella Taccia ci scioglievo il cioccolato (ride, ndr)”.
• Voi ovviamente non disegnate più, ma come funziona con le riedizioni?
“Alcuni prodotti vengono rimessi in produzione, come per esempio la poltrona Babela su cui sei seduta. Era nata in metallo ed ora nella versione in legno è prodotta dall’azienda Tacchini. Ci sono storie interessanti anche sulle riedizioni. Tornerei a Taccia… Mio padre e suo fratello Pier Giacomo erano stati chiamati da Kartell per disegnare una lampada con coppa in polimero. Ci provarono, ma le lampadine ad incandescenza scaldavano molto e il prototipo si sciolse: era un progetto sbagliato per quell’epoca. Allora è stata messa in produzione da Flos in vetro. Ora con le lampadine a led Flos realizza una versione in polimero che di fatto è la versione originale”.
• Le aziende vi contattano per le riedizioni?
“Con le aziende abbiamo un rapporto meraviglioso! Molte partecipano alla Fondazione. All’inizio non credevano molto al progetto perché eravamo giovani e non sapevano che contributo tecnico potevamo dare alle scelte, ora invece sì: è un lavoro in collaborazione. Per i colori un discorso a parte. Papà attribuiva il colore ad alcuni prodotti in base ad un ragionamento, ma altri colori potevano variare. Per esempio Allunaggio era verde perché doveva mimetizzarsi…”.
• Le aziende lo contattavano con richieste specifiche o lui disegnava e poi proponeva?
“Dipendeva molto dal tipo di rapporto. Per esempio per Euroluce disegnava prodotti per la Flos, ma in realtà disegnava soprattutto per mostre, fiere e stand. Sella e Mezzadro per esempio sono nati per un allestimento e vent’anni dopo sono andati in produzione. Le aziende vedevano i prodotti già inseriti in contesti e scoprendo le reazioni del pubblico decidevano di metterli in produzione”.
• Tuo padre non si prendeva sul serio… come molti suoi attuali colleghi.
“Giocava sempre e con tanta umiltà. Chi entrava in studio era stupito dalla quantità di oggetti strani che vi trovava. Come in una fabbrica di giocattoli…”
• Pensi sia stato capito in tutto quello che ha fatto?
“Bella domanda… Credo di sì. Era già molto amato con la lampada Arco nel 1962. Ha sempre sperimentato molto: diceva che l’interdisciplinarità aiuta il progetto… Aiutava tutti ad aprire la mente. Alla Triennale di Milano è attualmente visibile una mostra per i 100 anni di papà e l’ha ideata Patricia Urquiola, una sua studentessa”.
• L’eredità più importante che ha lasciato ai suoi studenti?
“La curiosità… tutto può diventare qualcosa”.
Cristina Giorgi
Spazio metodo - cristina.giorgi@dentrocasa.it
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